LO SPAZIO DEL LIBERO CONVINCIMENTO

Il progresso scientifico,specie negli ultimi anni, pone l’attenzione di molti sul riverbero che talune scienze e metodologie connesse possono refluire sul terreno spesso impantanato (e perché  no?) talvolta incolto della giustizia penale.

La questione di fondo, più che mai attuale, è sino a che punto il fatto-reato con l’ausilio della scienza può essere provato oltre ogni ragionevole dubbio.Ma le perplessità o le questioni sono molteplici: l’affidabilità del principio scientifico, la correttezza del metodo, l’esatta applicazione del metodo stesso, la capacità del giudice di comprendere il percorso scientifico e di trarne le conclusioni, il grado di certezza.

Nei casi più gravi la ricostruzione dell’evento delittuoso è quasi sempre difficoltoso specie quando vi è assenza di testimoni o quando il materiale probatorio è scadente, insufficiente o di difficile lettura.

 

Sul piano dell’ammissibilità di una prova scientifica e/o atipica, la struttura dell’impianto processual-penalistico italiano non pone limiti se non quello del pregiudizio per la libertà morale della persona o dei limiti ex art.193 cpp..

 

Cosicchè tutte le volte che al giudice viene rappresentata l’opportunità di  essere soccorso nell’accertamento del fatto dal mezzo scientifico, egli se lo ritiene idoneo ed indispensabile può serenamente disporlo.

E ciò normalmente avviene per gli accertamenti medico-legali, per le questioni balistiche, per gli infortuni sul lavoro, per gli incidenti stradali.

 

Quid iuris quando la prova scientifica è  totalmente innovativa,non totalmente accettata dalla comunità scientifica?

 

La prova scientifica si sposa ineluttabilmente con il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio.

 

Certezza della prova=certezza del verdetto. “E’ impossibile specificare un particolare grado matematico di probabilità che deve essere raggiunto affinchè possa essere emesso un verdetto di colpevolezza in un processo penale. Nondimeno, nella natura delle faccende umane, l’assoluta certezza è raramente (se non mai)raggiungibile”. (1)

 

E si può affermare o negare un fatto sulla base di un mero calcolo di probabilità?

 

E poiché la tradizionale cultura processuale anglo-americana, come ha acutamente osservato Giovanni Canzio (2) è meno attrezzata di quella italiana che offre più spazi alla nuova metodologia e tecnologia moderna per l’accertamento dei fatti (artt. 190, 494, 227.5, 501.2, 121.1, 190.2, 195.2, 441.5, 507 c.p.p.). si può, senza azzardo, affermare che il giudice italiano possiede degli strumenti più ampi per ricercare la verità.

 

Il nostro sistema penale processuale mal digerisce gli ostacoli per la formazione, sia pure con metodo dialettico, della prova ai fini della conoscenza dei fatti.

Ma è soprattutto la non tassatività delle prove penali che porta ad orizzonti non definiti e ciò in linea con i principi dettati dal giudice delle leggi che sanciscono che il giudice deve accertare la verità.  (3)

 

Ma se l’apporto scientifico è innovativo, rivoluzionario non riconosciuto universalmente quale spazio di decisione nell’ambito del libero convincimento giuridico è riconosciuto al decidente ?

 

Si potrebbe rispondere che il giudice non ha limiti se il verdetto dà conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati (ex art. 192, 1° comma c.p.p.).

 

Certo questo è già codificato. Ma la questione è che talvolta la decisione è giusta ma la motivazione è stringata, non congrua: in una parola “scritta male”. Altre volte la decisione è sbagliata e la motivazione apparentemente logica: in una parola “scritta bene”.

 

E quindi tutto dipende da come si sa esprimere per iscritto l’estensore.

 

Qui non si discute se il giudice ha interpretato male il materiale probatorio ma se egli è in grado di  valutare con estremo rigore i risultati della prova. E cosa è la valutazione di una prova scientifica per un soggetto che è sulla carta “peritus peritorum” ma per alcune materie specialistiche “imperitus imperitorum”?

Scrive Francesco Zacchè, a commento di una sentenza della Corte di legittimità Sez. IV n. 927 (4), richiamando Amodio: “Nell’accezione comune, travisare significa svisare, alterare, e, in senso figurato interpretare male. In ambito processuale, si ricorre generalmente all’espressione <<travisamento del fatto>> per segnalare quei casi in cui il giudice ha motivato la propria decisione sulla base di un <<atto processuale…mai venuto ad esistenza>> (travisamento degli atti) o le cui <<proposizioni probatorie>> sono in contraddizione con <<le proposizioni probatorie assunte come base argomentativa del discorso giudiziale>> (travisamento delle risultanze)”.  

 

Ci è stato insegnato dal Supremo Collegio che quando l’apparato argomentativo è logico, la sentenza è salva.

 

Dalla sentenza innanzi citata: “….è stato affermato in dottrina che il corretto accertamento del fatto costituisce una condizione necessaria della legalità della decisione e la giurisprudenza ha ribadito (v. Sez. IV, 15 dicembre 1993, Romano, per est. in Foro it., 1994, II, c. 443) che <<per esercitare il controllo di legittimità sull’adeguatezza, congruità e logicità della motivazione del provvedimento impugnato, la Corte deve rifarsi, dandola per inattaccabile, alla ricostruzione storica della vicenda processuale fornita dal giudice di merito…nonché ai giudizi sul fatto circa l’attendibilità, o no, delle fonti…; sicchè, ove tale ricostruzione e giudizi manchino o risultino frammentari – tanto da non rendere intelleggibili gli esatti contorni e comprensibile la valenza accertativa – la corte viene posta nella impossibilità di esplicare correttamente il suo ruolo di pura legittimità. E il requisito minimo perché l’accertamento del fatto possa ritenersi corretto è che si fondi su elementi di prova esistenti e non inventati”.

 

Parte della dottrina (5) ritiene che nel nostro ordinamento sono preclusi sia il verdetto immotivato (come per il sistema giudiziario anglo-americano imperniato sulla giuria), sia il riconoscimento senza limiti del principio del libero, arbitrario, soggettivo e insindacabile convincimento, inteso come “intime conviction” del giudice.

Mi permetto di dissentire. Nella pratica quotidiana assistiamo il più delle volte a procedimenti penali che si concludono con sentenze dettate più dall’intimo convincimento che dalla certezza della prova.

 

Sul piano della norma vigente ha perfettamente ragione. Sul piano delle cose di cui noi operatori del diritto siamo quotidianamente testimoni talune volte così non è.

 

Cito un esempio tra i mille che ognuno di noi può ricordare:  – Sentenza n. 5/02 Reg. Sent. emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta in data 18-03-2002 procedimento a carico di Riina Salvatore + altri, c.d. “Strage Via D’Amelio” – (la circostanza riguardava la valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca di alcuni collaboratori di giustizia <<Brusca, Cancemi, La Barbera, Di Matteo>> che asserivano di non aver mai partecipato ad una riunione precedente la strage di Via D’Amelio insieme a tale Scarantino Vincenzo, collaboratore di giustizia, che invece ne affermava l’esistenza).

 

Su tale circostanza la Corte di Assise di Appello di Caltanissetta ha così motivato (pagg. 600 – 603): “Si può, peraltro, anticipare la conclusione cui questa Corte è pervenuta sul piano logico nella valutazione degli effetti di questo contrasto sulla credibilità di ciascuno rispetto alle indicazioni probatorie che essi forniscono nei confronti degli imputati.

Ebbene l’inconciliabilità delle posizioni di Brusca e Cancemi (nonché di La Barbera e Di Matteo) da un lato e di Scarantino dall’altro in ordine alla partecipazione dei primi alla riunione nella villa di Calascibetta non elide sul piano logico la possibilità che la riunione vi sia effettivamente stata, così come ha riferito Scarantino. Ove si dovesse ammettere che i collaboratori chiamati da Scarantino non abbiano effettivamente partecipato alla riunione (o, il che è lo stesso, in mancanza di prove di una siffatta partecipazione) non per questo si deve escludere che la riunione vi sia stata; esistono elementi di conferma logica che una riunione di tal genere vi sia effettivamente stata e la presenza di quelle figure può escludersi senza infirmare in alcun modo la possibilità che la riunione sia avvenuta con le caratteristiche e la finalità individuate nella sentenza impugnata….

 

Ciò che dal confronto svoltosi avanti a questa Corte è emerso è infatti che a parte la questione del numero (quattro persone attendibili contro la parola del solo Scarantino), che ha una indiscutibile rilevanza ma che viene in qualche misura attenuata dalla configurabilità di un possibile interesse comune dei quattro collaboratori a tirarsi fuori da una responsabilità diretta e materiale nella strage di Via D’Amelio, avendo oltretutto sia Brusca che Cancemi comunque pagato il loro debito con la giustizia, ed essendo stato l’eventuale contributo di Di Matteo e La Barbera evidentemente marginale (con specificazioni per la posizione di Di Matteo), la posizione di Scarantino non esce necessariamente perdente dal confronto in aula, avendo egli sostenuto con forza la sua posizione, riuscendo in qualche caso a mettere in imbarazzo i suoi più titolati interlocutori.

 

Ne segue che sulla questione della partecipazione dei quattro collaboratori alla riunione non vi è prova positiva che su questo punto Scarantino abbia detto sicuramente una bugia (priva oltretutto di alcuna necessità logica e pratica, a questo punto, se non sotto un unico profilo che esamineremo più avanti). Semplicemente che su questo punto non vi è alcun riscontro; assenza di conferme e di riscontri che non equivale a prova logica della falsità di quanto sostenuto da Scarantino, ma a un irresolubile conflitto di posizioni che non può sciogliersi né in favore dell’una né in favore dell’altra tesi, potendo soltanto svolgersi dei ragionamenti di tipo probabilistico, senza che questo influisca sull’oggetto della prova: la riunione con la presenza degli imputati ha una sua ragion d’essere e una sua plausibilità. Tale ragion d’essere persiste sia che ammettendo la presenza di Cancemi e Brusca sia, a maggior ragione, escludendola”.

Come si può facilmente rilevare quella Corte ha ritenuto “l’inconciliabilità” delle posizioni dei collaboratori di giustizia, Brusca, Cancemi, La Barbera, Di Matteo, da un lato con quella di Scarantino Vincenzo dall’altro, ma ha concluso in maniera stupefacente: la versione dei quattro avanti citati collaboratori è compatibile con quella di Scarantino anche se falsa nell’ambito dei nomi indicati da quest’ultimo.

 

Quindi, muovendosi sul terreno insidioso della probabilità quel giudice ha accreditato l’affermazione di una determinata circostanza (nella fattispecie un summit mafioso per deliberare la morte del Dott. Borsellino) rispetto ad un’altra che ne negava l’esistenza.

 

Il tutto si pone nella “capacità di giudicare”: arte o compito assai difficile! Nessuno di noi vuole (e men che mai l’interessato) il giudice ingessato, ingabbiato.

 

Cosicché, (6) l’organo di jus dicere si vede avvolto in metodiche che non gli competono: procedere a falsificare, secondo il modello delle discipline logico-matematiche che descrive la probatio ad absurdum, – stabilisce la verità di una proposizione dimostrando che la sua contraddittoria è falsa -, tutte le alternative meno una onde garantire a quella sopravvissuta il crisma dell’inoppugnabilità”.

 

E allora con Democrito si può dire che o non vi è nulla di vero, o comunque la verità non ci è manifesta e quindi per stabilire la verità non ci si deve rimettere alla maggioranza o alla minoranza: la stessa cosa appare dolce al gusto di alcuni, e amara ad altri, sì che se tutti si ammalassero ed impazzissero, e solo due o tre restassero sani e in grado di ragionare, sarebbero proprio quest’ultimi a sembrare malati e pazzi, e non gli altri. Inoltre a molti degli altri esseri animati le stesse cose appaiono il contrario che a noi. E anzi a ciascuno di noi le cose non appaiono, stando al senso, sempre le stesse. Non è quindi noto quali di esse siano vere o false. Queste non sono in alcun modo più vere di quelle, ma si equivalgono. (7)

 

Ma quali sono, allora, gli spazi decisionali concessi al giudice nell’accertamento della verità ?

 

Ora che il principio dell’oltre ragionevole dubbio è codificato cosa cambia rispetto al recente passato ?

 

Indicare un criterio di misura per valutare l’azione dell’uomo e cioè come si possa distinguere una scelta o una decisione razionale dal mero arbitrio è altamente suggestivo oltre che auspicabile.

 

Così, “se si vuole salvare la comunicazione intersoggetiva e con essa la convivenza sociale, è necessario che vi sia una qualche misura comune della condotta umana, una misura che valga per ogni uomo….Quali sono le virtù che devono caratterizzare nel mondo di oggi non solo l’operare del giudice e del giurista, ma anche quello del cittadino? ”. (8)

 

L’art. 546 c.p.p. indica, in un certo qual senso, al giudice la strada per spiegare la sua decisione:

 

1. La sentenza contiene: a) l’intestazione “in nome del popolo italiano” e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata; b) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo nonchè le generalità delle altre parti private; c) l’imputazione [ 429, 450,456,464, 516-518, 521,552]; d) l’indicazione delle conclusioni delle parti [523]; e) la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie [ 125 comma 3, 606 comma 1 lett. d) ed e)]; f) il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati; g) la data [ 111] e la sottoscrizione [ 110] del giudice.

2. La sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta dal presidente e dal giudice estensore. Se, per morte o altro impedimento, il presidente non può sottoscrivere, alla sottoscrizione provvede, previa menzione dell’impedimento, il componente più anziano del collegio; se non può sottoscrivere l’estensore, alla sottoscrizione, previa menzione dell’impedimento, provvede il solo presidente [426 comma 2].

3. Oltre che nel caso previsto dall’articolo 125 comma 3, la sentenza è nulla se manca o è incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo ovvero se manca la sottoscrizione del giudice.

 

 

(8) Maria Antonietta Foddai – Sulle tracce della responsabilità – G. Giappichelli Editore

 

Certo, la questione non è lo stile linguistico usato per la redazione della motivazione, anche se è vero che “la redazione di una sentenza è un’attività strutturalmente creativa”. (9)

 

Infatti, sono assolutamente d’accordo con chi sostiene che non ci sono o non ci dovrebbero essere, le motivazioni per tutti gli usi: il giudice cioè dovrebbe non produrre una sentenza ma per essere veramente efficace deve saper creativamente produrre quella sentenza. (10) 

 

Sicchè è indubitabile che si avverte l’esigenza di un linguaggio giuridico stabile onde evitare interpretazioni alternative e/o errate.

 

La questione, allora, non solo è il limite dello spazio “decidendi” ma la capacità di valutare la prova, di interpretarla senza essere influenzati dall’ “enorme potere persuasivo e suasivo” dei mezzi di comunicazione di massa che rincorrendo “l’audience e lo scoop: orientano, delegittimano, disinformano, creano immaginari collettivi”. (11)

 

Insomma, notevoli sono le difficoltà che si devono affrontare sul terreno della giustizia poiché occorre spesso coordinare vari elementi per emettere una sentenza che altro non è che l’incrocio fra tutte le quelle interazioni e produzioni che partono dalle indagini preliminari fino alla Cassazione. (12)

 Ditalchè “la legge non è uguale per tutti, almeno in chiave linguistica……E’ vero: in ogni Tribunale c’è scritto <<la legge è uguale per tutti>>. Teniamoci ben caro quel cartello, che però, dal punto di vista linguistico, è solo mèta e obiettivo tendenziale”. (13)

 

Il bagaglio culturale, la competenza, il sapere giuridico, l’esperienza di vita la professionalità non sono uguali per tutti (investigatore, accusatore, difensore, giudice, consulente, perito).

 

Il tema diventa così interessante ma al tempo stesso scottante.

 

Di fronte ad un giudice spesso giovane non aduso ad interpretare i nuovi modelli sociali, culturali, privo cioè di quella esperienza di vita che insieme alla competenza, maturità professionale, costituiscono ingredienti indispensabili per giudicare, quale risultato potrà venirne fuori?

 

Scrive Richard Eggleston: “nel giudicare quale sia il normale corso dell’esperienza umana, il Tribunale di merito farà normalmente affidamento sulla propria conoscenza del mondo: delle faccende umane e dell’ordinario corso della natura”. (14) 

Certo, si deve, poi, porre il problema se ciò che è accaduto in altre occasioni possa costituire prova per il fatto controverso nella causa e ciò al fine di stabilire quale sia il normale corso delle faccende umane o quale sia l’ordinario corso della natura.

Quindi, per Eggleston il problema è quello di stabilire in che misura giudice e giuria siano legittimati a fare uso della propria conoscenza specialistica nel decidere quale sia il normale corso dell’esperienza umana e fino a che punto ciò sia concesso ai consulenti tecnici in qualità di esperti di testimoniare su tale materia.

 

In un interessante capitolo (Il grado penale di prova) Eggleston mette in rilievo come sia impossibile specificare un particolare grado matematico di probabilità per emettere un verdetto di colpevolezza in un processo penale.

 

Ed ha ragione quando sostiene che “nella natura delle faccende umane, l’assoluta certezza è raramente (se non mai) raggiungibile” (15)

 

E non a caso egli cita il Marchese di Laplace che nel suo “Saggio filosofico sulle probabilità”, pubblicato nel 1814, ha affermato che “senza dubbio, per condannare un imputato i giudici devono avere le prove più forti del suo delitto. Ma una prova morale non è che una probabilità, e l’esperienza ci ha fatto frequentemente conoscere gli errori di cui ancora sono suscettibili le sentenze criminali, anche quelle che sembrano essere le più giuste. La possibilità di riparare a tali errori è il più solido argomento dei filosofi che hanno voluto abolire la pena di morte. Ci dovremmo perciò astenere dal giudicare, se volessimo raggiungere l’evidenza matematica, ma il giudizio è imposto dalla società, dato il danno che le verrebbe dall’impunità del delitto”.(16)

Ed è ovvio ma comunque drammatico che in assenza di <<certezza matematica>> si compiano per forza degli errori.

 

Ma qui non si può essere d’accordo con il Marchese di Laplace poiché la società non può imporre un colpevole a qualunque costo.

Ridurre gli errori è impresa ardua, ma tentare di pervenire ad un grado accettabile di probabilità di colpevolezza può essere soltanto un terribile compromesso per mantenere gli errori ad un livello ragionevole sì da condannare meno persone innocenti ma pur sempre innocenti.

 

Cosa vuol dire essere convinti della responsabilità dell’imputato o esserne certi? Convinzione e certezza etimologicamente sono parole diverse. Viaggiano su binari separati che spesso possono portare allo stesso traguardo”. (17)

 

Si tratta di un’affermazione il cui contenuto trascende addirittura quanto essa esprime. Infatti in quella diversità sta un principio di civiltà giuridica verso la cui osservanza si sta avviando – tra molti contrasti ancora inesausti, con molte resistenze e tra molti errori – il passaggio dal sistema penale processuale inquisitorio a quello accusatorio –“. (18)

 

E’ il bagaglio di conoscenza, di esperienze o conoscenza specialistica che occorre rinforzare nel giudice (soprattutto) ma anche nell’avvocato, nell’accusatore, nel perito.

 

Ma quant’è lo spazio di libertà decisionale del giudice? Come si misura l’oltre ragionevole dubbio? Il giudice non è chiamato a decidere chi è il colpevole o a trovare un colpevole, ma solo se il soggetto convocato innanzi a lui è colpevole.

 

Il delitto può talvolta rimanere impunito e ciò non può che essere che il male minore rispetto ad una condanna ingiusta.

 

I confini della certezza sono ben più delimitati dai confini del dubbio che sono incerti ed illimitati.

 

L’atroce dubbio che trafigge la mente, che inquieta, che non fa dormire: il teste ha detto il vero o il falso? E’ stato in grado di riferire perfettamente ciò che ha percepito, osservato? La sua memoria è affidabile? Il suo sapere scientifico è attendibile?

 

Il giudice deve arrendersi e non avere timore o vergogna quando pur convinto non è certo della bontà della prova. Deve arrestarsi quando non è certo della colpevolezza.

 

Mal digerisco la ricerca affannosa, a qualunque costo di una verità processuale: non se ne sente proprio il bisogno.

 

Il giudice con le sue convinzioni, con i suoi pregiudizi, con il suo “sesto senso” non serve alla giusta causa.

 

E’ elevato il rischio dell’errore quando egli si esprime in termini di convinzione e non di certezza.

 

Lo spazio del libero convincimento non può essere altro, insieme alla rigorosa valutazione della prova, che la sua coscienza che deve essere limpida e al contempo sorda alle aspettative “populistiche” o “popolari”.

 

Uno dei più grandi, clamorosi errori giudiziari che la storia ricordi è sicuramente la condanna a morte del filosofo greco Socrate.

 

Quello fu un giudizio politico basato su determinate accuse rivolte (corruzione dei giovani, non credenza negli Dei della città) dal giovane rampante Meleto.

 

Lo giudicarono ben 501 cittadini Ateniesi (quasi un intero parlamento). Socrate, com’è a tutti noto, preferì difendersi contestando le basi del processo anziché col metodo tradizionale del tempo. Col solo margine di appena trenta voti fu decretata la sua condanna.

 

Molto più ampio fu, invece, il margine di voti (360 contro 140) che ne decretò la condanna a morte.

 

Nel nostro ordinamento ne basta uno di giudice per comminare pene pesanti. Un giudice soltanto, chiamato monocratico o G.I.P., che parla con se stesso che si chiude nella solitudine della camera di consiglio per “autoconsigliarsi”.

 

Né può esserci di conforto la Corte di Assise stante il mero ruolo passivo dei giudici popolari.

 

Avete mai visto prendere appunti a un giudice popolare ? Avete mai visto un giudice popolare suggerire o fare domande ?

 

Pertanto, nell’ambito del giudizio di una Corte d’Assise si istaura una sorta di diarchia che viene meno se il giudice togato a latere è appena uscito dall’università. E la Corte diventa tout court monocratica.

 

Disfunzioni del nostro sistema a cui non diamo importanza ma che invece ritengo siano di estrema rilevanza.

 

Per arrivare alla decisione nel processo penale italiano il giudice alla fine è solo ma in “compagnia” delle sue incertezze, dei suoi dubbi, delle sue perplessità e nei casi più gravi delle “sue” verità. E’ chiaro che non potrà mai esistere un manuale per l’accertamento della verità ma l’uso delle regole prudenti, legato al buon senso, alle linee guida in parte codificate ed in parte elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, può essere utile per ridurre l’errore, non certo per eliminarlo.

 

L’oggettivazione del giudizio per eliminare l’intervento del fattore umano non è del processo penale ma appartiene ad altre discipline. (19)  Il giudice interpreta i fatti o li valuta ?

 

Neitzsche avrebbe detto che non esistono fatti ma solo interpretazioni. (20)

 

Ed è evidente che poi c’è il problema legato al rapporto tra fatti ed interpretazioni.

 

Secondo Maurizio Ferraris nella sua opera – L’ermeneutica -, “tutti interpretiamo senza per questo essere ermenuetici, né soprattutto abbiamo bisogno di leggere trattati di ermeneutica per ricevere lumi circa la nostra prassi. Inoltre, un giurista, un teologo o un filologo incontrano certamente dei momenti ermeneutici nella loro attività, che è però tale non in quanto sia ermeneutica, bensì perchè è giuridica, teologica o filologica; insomma, che io sappia poco o tanto di ermeneutica non mi garantisce ancora alcuna conoscenza quanto al diritto, alla teologia o alla letteratura, allo stesso modo che delle conoscenze di semiotica non mi assicurano affatto un dominio della semiotica medica”.

 

Il problema è, certo, la bontà delle interpretazioni perché ognuno può interpretare le cose a suo modo e la questione diventa ancor più “problematica” specie quando il fatto smentisce l’interpretazione o la tesi che dir si voglia.

 

Sicchè, in presenza di più interpretazioni lo sforzo deve essere quello di cercare quella giusta.

 

E in un sistema come il nostro dove la decisione è frutto di un ragionamento giuridico che “si forma attraverso i verbali, i testi e le parole degli avvocati e dei giudici” il linguaggio assume un’importanza fondamentale.  (21)  

Ottimamente ha scritto Alarico Mariani Marini sul tema “Il linguaggio della verità: Il linguaggio del processo presenta una propria autonomia in quanto strumento per la costruzione di un ragionamento con il quale si giustifica una tesi o una decisione entro un sistema di regole predeterminate….la verità nel processo tuttavia non tollera soluzioni perplesse e poiché il giudice non può abdicare nel dovere di decidere, la verità è sempre perentoriamente affidata a quelle proposizioni  che costituiscono il comando espresso nel dispositivo della sentenza. Quando infligge una pena ad un imputato la sentenza afferma l’esistenza di un fatto e una responsabilità personale secondo la legge, quando condanna ad un facere afferma l’esistenza di un diritto tutelato dalla legge e di un corrispondente dovere. Il ragionamento che giustifica tali conclusioni, qualunque sia la sua validità, e la fallibilità delle sue percezioni, cede necessariamente il passo a quella parola finale. In questa enunciazione definitiva, questa sì di significato univoco, conclude Mariani Marini, ogni dubbio è risolto e con essa si suggella il patto di verità nel processo(22)   

 

Spazi del libero convincimento che si riducono notevolmente in Cassazione anche con la novità legislativa introdotta nell’art. 606 lett. d) ed e) c.p.p.. Se la motivazione della sentenza di merito è scritta “bene” ed il ricorso è scritto “male” il traguardo dell’accertamento della verità non viene pienamente raggiunto.

 

E’ stato detto più volte che il nostro sistema processualistico non è di tipo accusatorio puro: a parte l’annosa questione della separazione delle carriere, noi non avremo mai un giudice terzo fin quando ci sarà una norma chiamata 507 c.p.p., fin quando il giudice dopo che non avrà ammesso domande suggestive e non pertinenti ha il potere di invadere, senza timore alcuno di domande suggestive e non pertinenti, il campo già arato dalle parti.

 

Con questi residuati bellici, il processo non sarà mai delle parti, non sarà mai tout court accusatorio. E come se in una partita di calcio, l’arbitro partecipasse al gioco. Forse l’esempio, dati gli ultimi avvenimenti calcistici, non è affatto calzante!

 

In definitiva, non si può non essere d’accordo con chi autorevolmente sostiene che “l’accertamento giudiziale della verità non è soltanto un’operazione tecnica, ma il risultato di una ricerca e di un’interpretazione che nella prova per testimoni assume una particolare ampiezza. Questo spazio è riservato al libero convincimento del giudice, sul quale, in definitiva, è decisiva una prudente saggezza (la prudentia dei latini, da cui iuris – prudentia) imposta dal carattere dilemmatico della conoscenza probabile, e una tensione morale per raggiungere quell’idea di verità per quanto possibile perseguibile con imparzialità e ragionevolezza”. (23)

 

E con tutti gli sforzi possibili non saremo mai certi che quella ricostruita sia la verità.

 

E fu proprio Socrate a mettere a nudo i limiti del sapere dell’uomo.

Giuseppe DACQUI’

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