E’ veramente difficile immaginare un giudice anglosassone che fa il gesto delle cinque dita della mano che si aprono e si chiudono ad intermittenza che invitano il lawyer ad apprestarsi a concludere, oppure che butta lo sguardo al cielo mostrando fastidio o che si mostra nel volto talvolta rugoso, insofferente. Fastidi che, invece purtroppo, talvolta caratterizzano l’italico giudice.
Sensi di fastidio che il giudice nostrano mostra ogni qualvolta il difensore si “attarda” secondo un tempo stabilito da un fantomatico cronometro giuridico.
A Palermo alcuni giorni fa in Corte d’Appello è avvenuto che uno stimato avvocato è stato minacciato di essere allontanato via dall’aula per aver osato dilungarsi e divagare.
Gentleman: chi è costui ?
Ho avuto modo di scrivere su queste pagine sul giudice giusto (Oratori del Giorno n. 2/2000) che è colui che non manifesta alterigia, che non ha atteggiamenti di irritata ostilità, che dimostra di essere “super-partes”, che non applica il principio del bastone e della carota, che si immedesima nella vicenda umana che è sottoposta al suo giudizio.
Ma ciò che è in gioco è il diritto alla difesa presidiato da norma costituzionale.
Possiamo, se vogliamo, a lungo dibattere se sia ancora attuale insistere sulla classica retorica o piuttosto dirigersi su una nuova eloquenza sobria e asciutta.
Ma questo non costituisce un problema. Si può scegliere una corrente di pensiero anziché un’altra.
La questione rilevante riguarda il controllo di sé, il rispetto degli altri, la tolleranza, il sapere ascoltare.
Sapere ascoltare: una vera e propria arte !
La discussione non è un conflitto, una guerra stellare, un “cilicio”, una tortura, qualcosa di dissacrante.
L’arringa è il momento più alto e più nobile del processo accusatorio in particolare, anche se è pur vero che tutto dipende dalla capacità individuale, poiché l’oratoria, è risaputo, è anch’essa un’arte.
Questione di stile, di suoni, di voci più o meno gradevoli all’ascoltatore.
Ma il giudice non è uno spettatore che ha pagato il biglietto e quindi “autorizzato” ai fischi, al lancio di uova e pomodori; egli è il giudice delle leggi, il Supremo, l’Onorevole Collegio che non può umiliare la parola del paladino dei diritti e dell’uguaglianza.
Già molti secoli fa un grande maestro di saggezza nella sua opera “L’Arte di Sapere Ascoltare” ebbe a scrivere che nei processi giudiziari, il magistrato è tenuto ad ascoltare senza ostilità e partigianeria, secondo coscienza e spirito di giustizia.
Plutarco ci insegna che “sono sconvenienti in chi ascolta una fronte accigliata, indice di arroganza o presunzione, un volto annoiato, lo sguardo errante di qua e di là, le membra scomposte e le gambe accavallate; e sono comunque biasimevoli e da evitare con molta accortezza anche un cenno o un bisbiglio con il vicino, i sorrisetti ironici, gli sbadigli sonnacchiosi, il capo abbassato e qualunque altro simile atteggiamento”.
“C’è un aspetto della tecnica retorica che di solito non viene messo in evidenza: la retorica non serve solo a esprimere meglio le idee, serve a trovarle” (Laura Bosio, Avvenire 24-04-2008).
Certo, da un lato può esserci l’incontinenza dell’avvocato ma dall’altro, cosa ben più grave, vi è l’intolleranza del giudice.
Nella famosa opera “L’Arte di tacere” dell’Abate Dinouart viene ricordato ciò che un saggio pagano avrebbe detto a dei giovani: “Ricordate che la natura vi ha dato due orecchie e una sola lingua per insegnarvi che bisogna tacere e ascoltare il doppio del tempo che impiegate per parlare”.
Se c’è un momento per tacere e un momento per parlare, ci deve essere, Signor Giudice, un tempo per ascoltare, per sapere ascoltare.
Giuseppe DACQUI’