Abbiamo già scritto del prezioso libro di Paolo Borgna (avvocati, dovete acquistarlo, Laterza Editore “Difesa degli avvocati, Scritta da un pubblico ministero accusatore”) magistrato che, caso raro, esalta la difesa apprezzando la professione forense.
Giuseppe Dacquì, avvocato penalista siciliano (quindi penalista tosto, di processi duri) rilegge questo libro straordinario (perché nessun magistrato aveva mai dato tanto lustro al difensore) ricordando la figura nobile e poco nota di Serafino Famà, caduto per mano mafiosa per aver rigorosamente osservato i doveri giuridici e deontologici del difensore.
Titta Madia jr.
Sono passati ben settantaquattro anni da quando è uscita la prima edizione della celeberrima opera di Piero Calamandrei: “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. Ne devono passare quasi altrettanti di anni prima di arrivare alla pubblicazione di un “elogio” agli avvocati scritto da un magistrato per rendere la pariglia.
Paolo Borgna, stimato magistrato in quel di Torino, immaginando di parlare con un suo giovane uditore, spiega quanto sia importante la funzione dell’avvocato, come sia insopprimibile la figura costituzionale del “difensore dei diritti” (così Guido Alpa – Presidente del Collegio Nazionale Forense).
Rivolgendosi al suo discente Francesco, il “pubblico accusatore” comincia la sua lettera “ricordando che non esiste una superiorità delle <<virtù civili>> del magistrato. Che non ci sono <<eroi>> per la loro funzione sociale. Che l’avvocatura come libera professione non è un residuo fossile di un’epoca ormai tramontata. Che la più forte passione civile, la sana ambizione di servire la res publica, non è prerogativa del pubblico funzionario imparziale ma può nascere ed essere nutrita anche dalla passione professionale, dall’amore per una libera professione svolta in modo indipendente e combattivo”.
Nobili e toccanti le pagine dedicate al ricordo del sacrificio di quegli avvocati morti per il loro <<essere avvocati>>. Furono cento gli avvocati che, tra il 1943 e il 1945, morirono per la libertà.
L’ultima lettera lasciata da ciascuno di quei cento avvocati farà scoprire che ognuno di loro, nel momento supremo di fronte alla morte, ebbe un pensiero che riaffermava la fedeltà alla giustizia, la fierezza di morire da eroe in quanto avvocato. E a Francesco, il pubblico accusatore racconta, tra l’altro, la storia che quando “in Italia lo Stato si dissolse, l’avvocatura diede un impulso decisivo a porre le fondamenta per la costruzione di un nuovo Stato. Il 26 Luglio 1943 – a poche ore dalla caduta di Mussolini e dall’ambiguo proclama di Badoglio, <<la guerra continua>> – fu un avvocato ad affacciarsi ad un balcone del suo studio di Cuneo e a proclamare ai suoi concittadini: <<Sì, la guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco>>. Si chiamava Duccio Galimberti”.
E continuando in questo dialogo immaginario con il suo giovane uditore, Egli ricorda due avvocati <<che furono esempio di virtù civile, dell’ideale repubblicano di amor di patria>>: Fulvio Crocee Giorgio Ambrosoli: due avvocati che videro la morte venir loro incontro, mentre gli altri non se ne accorgevano o facevano finta di non accorgersene”.
Il ricordo di FULVIO CROCE
“Giovedì 28 aprile è una giornata di pioggia. Alle tre di pomeriggio, dopo essere stato a casa per pranzo, Fulvio Croce rientra, sulla sua Fiat 125, al lavoro, in un vecchio palazzo di via Perrone 5, nel cuore di Torino. Posteggia l’auto nel cortile e si avvia nell’androne verso lo studio. E’ un uomo solo, di oltre 70 anni, che cammina appoggiandosi al bastone, masticando il solito mezzo toscano. La voce di un giovane uomo chiama: <<Avvocato!>>. Mentre Croce accenna a voltarsi, gli sparano alla schiena cinque colpi con una pistola Nagant. I terroristi diranno che hanno ucciso <<non la persona ma la funzione>>.”
Il ricordo di GIORGIO AMBROSOLI
“Il 25 febbraio 1975 Giorgio Ambrosoli, avvocato di Milano che dal 27 settembre 1974 è commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, scrive una lettera alla moglie Annalori. E’ una lettera-testamento, che l’avvocato non spedisce e che la moglie casualmente trova fra le sue carte. Su quei fogli, lasciati in un bloc-notes, Ambrosoli annuncia di esser pronto per il deposito dello stato passivo della banca. Dice di non avere timori. Ma, poche righe dopo, evoca alla moglie la loro giovinezza: <<Ricordi i tempi dell’Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica in nome dello Stato e non per un partito>>.
E più avanti aggiunge:
Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto (…). Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa.”
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In una prossima nuova edizione della “lettera” desideriamo suggerire al “pubblico accusatore” di ricordare al Suo giovane uditore Serafino FAMA’:
“Sono passate da poco le ore 21.30 di giovedì 9 novembre del 1995. Serafino FAMA’ ha appena lasciato lo studio per far ritorno a casa. <<E’ lei l’Avvocato Famà?>>; nemmeno il tempo di annuire e una scarica di sette colpi di pistola calibro 7.65 lo colpisce mortalmente”.
Serafino FAMA’, illustre e nobile Avvocato del Foro di Catania, ucciso poiché si rifiutò di acconsentire ad un “favore processuale” richiesto da un capo-mafia ad una Sua assistita.
“Difesa degli Avvocati – Scritta da un pubblico accusatore” di Paolo Borgna è uno scritto intenso, sentito, struggente in certe pagine, dettato da una trentennale presenza nell’aula di giustizia.
In questo momento di grave scadimento dell’Avvocatura italiana, la “lettera” di Borgna (da leggere, rileggere e conservare gelosamente) deve servire da nutrimento e da esempio per le nuove generazioni spesso smarrite, prive di un mentore che illumini il percorso, che innalzi la statura e la funzione dell’<<essere>> avvocato, quell’<<essere>> avvocato che a taluno è costata la vita in nome delle libertà e fedeltà alla Toga.
Giuseppe DACQUI’
(pubblicato sulla rivista “Gli Oratori del Giorno” – Giugno 2009)