Un’analisi critica sulla “mini-riforma” del giudizio immediato

Gli interventi di microchirurgia procedurale eseguiti con la novella legislativa n. 125 del 24 Luglio 2008, specie quelli concernenti l’art. 453 c.p.p. non possono che definirsi devastanti e in netto contrasto con alcuni precetti costituzionali.

Gli inserimenti di nuovo conio, passati quasi inosservati, facultano il pubblico ministero di richiedere il giudizio immediato anche oltre il termine di novanta giorni dalla iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p. e comunque non oltre centottanta giorni dall’esecuzione della misura cautelare, sempre che la richiesta non pregiudichi l’indagine

Perché il Pubblico Ministero possa formulare la richiesta sopraccitata occorre che siano decorsi i termini per la proposizione della richiesta di riesame ovvero che sia stato definito il procedimento ex art. 309 c.p.p..
Da ciò si ricava che il P.M., quando la prova appare evidente, oltre che nel caso previsto dal comma 1° dell’art. 453 c.p.p. (quando la persona sottoposta alle indagini è stata interrogata sui fatti dai quali emerge l’evidenza della prova ovvero, a seguito dell’invito a presentarsi – ex art. 375 c.p.p. – la stessa abbia omesso di comparire sempre che sia stato addotto un legittimo impedimento e che non si tratti di persona irreperibile) può avanzare la richiesta di giudizio immediato già subito dopo la decisione del Tribunale del Riesame nei confronti della persona che è stata raggiunta da pochi giorni da ordinanza di applicazione di misura cautelare.
Già la <<vecchia>> disciplina del giudizio immediato aveva suscitato notevoli perplessità e dibattiti dottrinari e giurisprudenziali tanto da richiedere anche l’intervento della Corte Costituzionale che, però, in diverse occasioni (ordinanze nn. 276 del 1995; 482 del 1992; 203 del 2002) ha ritenuto di non intravedere profili di illegittimità costituzionale.
Ma questa volta sembra che il legislatore l’abbia fatta grossa nel tentativo maldestro di trasformare il giudizio immediato in un giudizio “direttissimo” travolgendo le garanzie costituzionali che impongono un processo giusto nel contraddittorio delle parti e che la persona accusata di un reato disponga, tra l’altro, del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa.
Si era sollevata, senza trovare fortuna, da parte di autorevoli studiosi (1)e di attenti giudici di merito, la questione che il mancato avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari costituiva un <<vulnus>> delle guarentigie costituzionali atteso che veniva meno (rispetto ad altri soggetti accusati di un reato che, invece, erano per scelta discrezionale di una parte (P.M.) messi nelle condizioni di confrontarsi e confutare le argomentazioni avverse) il diritto di contraddittorio, il diritto di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, a ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa.
Insomma, se fino a ieri le perplessità sul tema concernente la mancata previsione che la richiesta di giudizio immediato deve essere preceduta dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415 bis c.p.p. sono state ritenute infondate, ora il giudice delle leggi, che sarà sicuramente di nuovo investito della questione, non potrà sostenere le stesse argomentazioni.
I commi 1 bis e 1 ter del novellato art. 453 c.p.p. ampliano i poteri del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale senza alcun contraddittorio e con un minimo e timido controllo giurisdizionale relativo soltanto all’accertamento oggettivo da parte del giudice che dovrà rigettare la richiesta solo se l’ordinanza che ha disposto la custodia cautelare è stata revocata o annullata per sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (art. 455, comma 1 bis c.p.p.).
Quindi, solo se il Tribunale del riesame o il G.I.P. hanno rispettivamente annullato o revocato l’ordinanza per insussistenza dei gravi indizi (e non per insussistenza delle esigenze cautelari) il giudice non potrà e non dovrà, nei cinque giorni dalla richiesta, emettere il decreto di giudizio immediato.
Si profilano, quindi, all’orizzonte vecchi e nuovi scenari di gravi lesioni del diritto a difendersi.
Intanto, sobbalza in tutta la sua evidenza la disposizione contenuta nel comma 1 bis dell’art. 405 c.p.p. (comma inserito, da poco tempo, attraverso l’art. 3 della legge 20 Febbraio, 2006 n. 46).
Come si conciliano i precetti contenuti nel citato articolo con le nuove disposizioni in argomento è veramente incomprensibile.
Per un verso, il Pubblico Ministero una volta avviata la procedura prevista dagli artt. 309 e seguenti del codice di rito, deve attendere il pronunciamento  della Suprema Corte per formulare le sue richieste (archiviazione o esercizio dell’azione penale – art. 405, comma 1 bis c.p.p.) e dall’altro, esaurita la fase del giudizio del Tribunale del riesame può non aspettare il giudizio di legittimità e formulare le richieste di giudizio immediato.
Quid iuris” se nel frattempo la Suprema Corte si pronuncia in ordine all’insussistenza dei gravi indizi colpevolezza e non sono stati acquisiti ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini?
Norme non coordinate che implicano difficoltà interpretative, che lasciano spazi di ampia discrezionalità ad una sola parte del processo e che pongono l’accusato in balìa dell’impulso del Pubblico Ministero che può, ora ancor di più, vanificare ogni “pensiero” o accenno di “atto” difensivi.
Se il legislatore con le modifiche apportate ha voluto ”accelerare” i tempi del processo penale, ciò mal si adatta alla  <<ragionevole>> durata dello stesso.
Ragionevole durata che non vuol dire certo <<sommarietà>>. L’interrogatorio espletato a seguito di applicazione della misura cautelare può dirsi una garanzia al pari di quelle contenute nell’avviso delle conclusioni delle indagini ?
Statisticamente il più delle volte l’indagato, che non conosce approfonditamente tutti gli elementi a suo carico (non può certo per esempio ascoltare in pochi giorni le conversazioni intercettate e trascritte, quasi sempre in modo parziale, dalla polizia giudiziaria), in sede di interrogatorio di garanzia preferisce avvalersi della facoltà di non rispondere o comunque quando sceglie di rispondere non ha potuto, evidentemente, esaminare tutto il fascicolo processuale.
Né gli stretti tempi, durante i quali si attiva la procedura ex art. 309 c.p.p., sono sufficienti per approntare una vera e propria difesa.
Così, mentre il pubblico ministero ha avuto un lungo periodo di tempo per indagare, all’accusato, in caso di richiesta di giudizio immediato, non resta che affrontare il processo ordinario oppure avvalersi del rito del patteggiamento o dell’abbreviato.
In tale momento l’indagato si trova di fronte a un bivio: obbligato a “scegliere”, senza potersi adeguatamente difendere, un rito alternativo o seguire il percorso scelto dal Pubblico Ministero.
Appare, persino ovvio, che non può più sostenersi che <<l’estensione al giudizio immediato delle modalità di esercizio del diritto di difesa previste dall’art. 415 bis c.p.p. si porrebbe in antinomia con i presupposti che giustificano la costruzione di questo rito secondo criteri di massima celerità e semplificazione senza il filtro dell’udienza preliminare>> (cfr. Corte Cost. ordinanza 9 – 16 Maggio 2002, n. 203).
Poiché le nuove disposizioni non pongono limiti rispetto alle varie fattispecie di reato e che in pochi giorni il Pubblico Ministero può richiedere giudizio immediato, nel processo accusatorio sembra affacciarsi l’ombra funerea dell’istruzione sommaria del vecchio rito inquisitorio.
Un ritorno al triste passato che mortifica le prerogative difensive tutelate dalla Carta fondamentale.
Vecchia o nuova inquisizione ?

(1) cfr. T. Bene – L’avviso di conclusione delle indagini – , pagg. 171 e segg. – Ed. Scientifiche Italiane, anno 2004;  S. Nuzzo, nota a ordinanza Corte Costituzionale n. 203/2003 in Cass. Pen. 2002 pag. 3736

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